#33 La storia di un videoclip che cattura la morte inattesa e la traduce in poesia
Vi racconto la storia del videoclip di Elysium di Bear's Den.
Questa è la storia di un gruppo di ragazzi, di un fratello con la camera accesa e di una tragedia che irrompe nel racconto.
Questa non è la storia di un videoclip. È la storia di come qualcosa di infinitamente reale ha preso il posto della finzione.
All'inizio doveva essere solo un videoclip. Uno di quei video indie con i colori un po' slavati, le sigarette tra le dita e l'aria da fine adolescenza che si respira meglio nei campus americani, dove la giovinezza si gioca tutta tra una birra calda e un tatuaggio sbagliato.
Il regista si chiama Marcus Haney. Di quelli con un talento sporco e romantico. Ha girato con i Mumford & Sons, ha fatto irruzione a festival senza biglietto armato solo di macchina da presa e faccia tosta, e stavolta ha un'idea che sembra uscita da una canzone folk: filmare il fratello minore Turner e i suoi amici alla Seattle Pacific University, mentre si godono gli ultimi giorni di college. C'è la primavera, c'è la voglia di libertà, c'è un gruppo di ventenni che ride, fuma, costruisce fuochi, si abbraccia.
È il 2014. Lo fa per i Bear’s Den, trio britannico attivo dal 2012. Stanno per uscire con il loro primo album, dopo alcuni EP e numerosi concerti.
È tutto reale. Nessun attore. Nessun copione. Haney vuole documentare la transizione, quel passaggio fragile tra l'adolescenza e l'età adulta. Un momento che passa in fretta ma lascia tracce profonde.
"Volevo filmare mio fratello e i suoi amici mentre facevano le cose che fanno davvero. Documentare le emozioni e le azioni. Volevo congelare gli ultimi frammenti di giovinezza ancora rimasti in lui."
La colonna sonora è Elysium dei Bear's Den. Una canzone che parla di fratelli, di tempo che passa, di quella speranza che si sgretola piano. C'è un verso che dice:
"Brother don't grow up... Just hope that age does not erase all that you've seen."
E quello è un momento davvero magico, che ancora oggi ricordo in maniera così potente.
E per descriverlo vorrei usare le splendide parole di Michela Murgia
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All’inizio era tutto come da non copione. Sigarette, skate, tatuaggi fatti in casa, scorazzate in auto, boschi, birrette, baci. Tutto bello, leggero, sognante. Tutti che si divertano. La camera che cattura quella magia di quel preciso istante, che dura un soffio, in cui appunto ci sembra di poter essere chiunque vogliamo essere.
Poi succede quello che nessuno avrebbe mai immaginato.
Il 5 giugno 2014, mentre le riprese sono in corso, un uomo armato entra nel campus. Spari. Urla. Confusione. Quattro studenti colpiti. Uno di loro è Paul Lee, 19 anni. Compagno di stanza, amico, fratello di giornata. Vive a quattro porte di distanza da Turner.
Quella notte nessuno riesce a dormire. Lo stesso Marcus quella notte sceglie di fermarsi sul divano del fratello nel dormitorio. Era lì con loro. E piano piano i ragazzi iniziano a trascinare i materassi fuori dalle stanze e a sistemarsi nel corridoio. Uno alla volta. Aspettano. Se Paul torna, vogliono essere i primi a vederlo. È un gesto tenero e disperato. Sessanta ragazzi. Tutti per terra. Nessuno parlava. Nessuno dormiva. Tutti in attesa che si apra la porta dell’ascensore.
La mattina dopo arriva la conferma. Paul non tornerà. È lui la vittima.
Quel weekend il fratello di Marcus e i suoi amici chiedono di finire il video, in onore di Paul.
Il risultato è un video che mostra in maniera vivida come un gruppo di amici affronta qualcosa che sembra più grande di loro.
Marcus è lì, con la camera accesa. Non è più un video. Non è nemmeno più un progetto. È qualcosa che non sa nominare. Ma che sa anche che non può ignorare.
Vogliono che resti. Che filmi. Non per ricordare Paul, ma per non perdere il momento. Per fissare il dolore mentre accade. Come se guardarlo in faccia potesse renderlo più tollerabile.
"Ero combattuto. Sembrava sbagliato e necessario allo stesso tempo. Ma loro volevano che restassi. E il video, lentamente, si è trasformato in una specie di rito."
Nel video che ne viene fuori, c'è una scena in cui rompono i piatti. Li frantumano contro un muro.
"I ragazzi mi hanno detto che filmare li aiutava. Era come affrontare la cosa insieme. Davanti alla camera."
Nel montaggio finale, Haney sceglie di non fare un video "sulla" tragedia. Non vuole estetizzare il dolore. Vuole lasciare che esista, insieme a tutto il resto. Perché è così che funziona: la morte irrompe e si piazza accanto alla vita, senza chiedere permesso.
"Abbiamo deciso di dare alla sparatoria lo stesso spazio delle altre scene. Come se fosse un'altra cosa che è successa. Perché nella realtà succede così: la vita va avanti, anche quando non dovrebbe."
E poi, quasi come un colpo di scena scritto male dal destino. Il giorno della sparatoria, il fratello di Markus doveva essere lì, in quel punto preciso della sparatoria. Stava per vendere annuari nella hall. L'unico motivo per cui non c'era? Era andato a prendere il fratello all'aeroporto.
La storia di Elysium non è un aneddoto da backstage. È un documento vivo, pulsante. Un pezzo di realtà che si è infilato dentro un videoclip e l'ha trasformato in qualcosa di diverso. Di necessario. Di irripetibile.
Non si può spiegare tutto questo in una caption. Non si può chiudere con una reaction. Bisogna guardarlo, ascoltarlo, e poi forse stare zitti per un po'.
Elysium non è un video sulla morte. È un video sulla vita che continua nonostante tutto. Ed è per questo che per me è così bello. Ed è per questo che vale tutto il tempo che gli dedicherai.
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Piccolo disclaimer
Leggerenza non è e non vuole essere in alcun modo superficialità.
Il rispetto per le singole storie di perdita e di dolore non verrà mai meno.
Questo vuole essere uno spazio aperto di scambio, consapevolezza e curiosità.
Il viaggio è un work in progress.
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